“Il nostro grande niente” di Emanuele Aldrovandi

 

La morte, lo avrò letto in migliaia di romanzi, lo avrò scritto in mille dediche, lo avrò ripetuto in centinaia di discussioni, non ha potere sull’Amore. Muore il corpo, dunque, non l’Amore.

Con questa premessa mi immergo nella recensione di un romanzo da brividi.

Prime parole, righe, pagine, due, forse tre, e già tutto il mio asse si sposta su una prospettiva diversa, quella di chi viene abbandonato e quella di chi è costretto ad abbandonare. Una scelta non sempre c’è. Ma quello che l’autore riesce a fare in poche righe è una sorta di incantesimo.

Appoggiata a quel lavandino, tra la bottiglia d’acqua e il pacchetto di grissini alle olive c’è una pozione di dolore che mi aspetta, mi chiama, mi sovrasta e… mi piega.

Questo romanzo è l’Amore che rimane, che sgomita per trovare il proprio universo tra la morte e le circostanze. Tutto l’Amore nascosto nel fondo di una tazza in bilico, nel sapore dei biscotti, tra le pile di libri messi a caso e mai sistemati.

Passano i giorni, no non quelli del tempo, sarà impossibile staccarvi dalla carta (o dal kindle come me) prima di aver finito in due, tre ore al massimo. I giorni che passano sono quelli dentro le pagine, quelli che non posso raccontarvi non solo per non darvi troppi spoiler ma perché, vi giuro, non sono raccontabili.

Al di là, sopra, dentro la trama ci sono sensazioni ed emozioni che vi stordiranno, disarmando ogni vostro tentativo di fuggire da demoni spaventosi.

Vorresti consolarla, ma non sai neanche come consolare te stessa, per cui resti in silenzio.

Un silenzio che purtroppo in molti abbiamo conosciuto perché la voce e la realtà in alcuni istanti sembrano così vicine e connesse da apparire una, conseguenza dell’altra. Così l’assenza di suono crea l’illusione di poter fuggire dal piano del reale mentre i ricordi continuano imperterriti il loro dialogo con il nostro cuore nel disperato tentativo di riparare un vaso che non sosterrà mai più la pressione dell’acqua. Lo sai tu e lo sanno anche loro.

Eppure la vita vale sempre un tentativo.

Ti sembra di non avere bisogno di niente. Mi sono ritrovata tanto in questo pugno di parole in cui ho visto gli occhi di uomini e donne rassegnati alla sofferenza e all’apatia. Una sensazione che non è una dimostrazione di forza ma di impotenza e rassegnazione.

Chi non è da nessuna parte riesce veramente a essere ovunque e riempiere ogni spazio sia fuori che dentro l’anima.

La modalità di esprimersi scelta dall’autore è coinvolgente e potente. Il teatro in questo senso sicuramente aiuta, ma sembra ci sia di più, meriti e sacrifici sconosciuti a chi legge ma capaci di esistere e conquistare lo spazio di una consapevolezza che non ha bisogno di prove.

Che viaggio dev’essere stato per te, Emanuele…

Un cammino a passo sostenuto verso la presa di coscienza che fuori dalle nostre certezze siamo fragili e spaventati. Un invito, importante, ripetuto più volte, a sistemare il tiro della nostra esistenza modificando i mezzi, non gli obiettivi.

Superato lo smarrimento iniziale comincia la ricostruzione del sé in una modalità contesa tra l’ironia e la pungente riflessione sull’essere. È nella parte centrale di questo piccolo gioiello che ci si rende conto di quanto potente possa essere la resilienza dei sopravvissuti.

È un distacco, quello provocato dal lutto, che prevede varie tappe non per forza riconducibili al tempo, anzi spesso sono improvvise illuminazioni che hanno il colore di una password capace di risvegliare il passato e con lui il mostro che prima o poi va affrontato.

Il nostro grande niente.

Solo al termine ho compreso, forse, il vero significato del titolo. Mi sono volutamente concentrata sulla parte sbagliata del fiume. Ho pensato erroneamente che la svolta avrebbe seguito la direzione spontanea delle acque per poi dovermi arrendere al fatto che avrei dovuto risalire i miei demoni per poter beneficiare di ciò che stavo leggendo.

Facile raccontare il dolore di un momento, più difficile raccontarne lo scorrere quotidiano da un punto di vista che non è quello di chi direttamente lo sta vivendo ma quello dell’Amore stesso che si fa spazio dopo la sorte.

Sarà per le tante, troppe similitudini con il mio percorso di studi, per il linguaggio così vicino a quello che sento intorno a me ogni giorno, per le riflessioni che mi trovo ingenuamente a fare mentre percorro a piedi le strade della mia città, per Just Breathe di Pearl Jam e Tangled Up in Blue di Bob Dylan, ma io queste pagine le ho sentite così presenti nella mente da non capire dove finiva la carta e dove cominciavano i miei pensieri.

Un dialogo immaginario che non ha mancato di strapparmi diversi sorrisi nascosti in mezzo a lacrime pesanti che più volte sono scese senza che io potessi controllarle.

Continuo a leggere e mi chiedo se alla fine sarà proprio il morso di un biscotto a risolvere tutti i problemi. Me lo chiedo come una che si era illusa si trattasse di scegliere tra lasciarsi morire e continuare a vivere e invece no.

Anche qui Emanuele è stato in grado di sorprendermi fino all’ultima infida pagina e oltre, fin dove la mia immaginazione di lettrice ha voglia di portarmi.

Il libro perfetto per chi non vuole avere più paura.

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